I canti dell'interregno: la recensione di Simonetta Sambiase per CinqueColonne.it

Nell’Interregnum “Siamo liberi di fare il bene. Il giudizio è infallibile. Non siamo liberi di fare il male” (Isidore Ducasse), e chiamiamo aiuto alla coscienza che ha voce in versi perché: “La poesia deve avere come scopo la verità pratica” (Isidore Ducasse).  

Ne “I canti dell’Interregno” di Pina Piccolo, i versi hanno il canto della narratologia del presente, la voce è alta come dall’alto di un monte sacro dove suona continuamente “il piffero della rivoluzione”, titolo dell’ultima sezione del libro. Non alla tromba o il tamburo è concessa la sveglia della coscienza,  ma al piccolo e legnoso piffero, insistente, squillante,  strumento inusuale di metafora di rivolta, ma nulla è inusuale nella trama del dettato poetico della raccolta di versi.  E’ subito chiaro che non ci saranno ricordi gloriosi nell’Interregno. La storia è quella del presente, l’ora è quella attuale, il “Duecento dopo Darwin” ed è adesso che urge a Pina Piccolo cantare il sonno degli egoismi, usare i versi per la traslazione rigida dell’indifferenza che desensibilizza giorno dopo giorno i sensi, fino a spingere la natura stesso dello sguardo.  Le pupille occidentali “balugicano” sulle armi e sul potere del futile a cui opporre cultura, empatia e una buona dose di ironia. L’olfatto è “disuso a distinguere l’odore della felicità da quello della morte in agguato”, mentre  la grande migrazione dei popoli della sabbia e della fame, quella dei “figli malvoluti da mamma Africa”, viene sommersa o salvata, sommersaosalvata, salvataosommersa, i braccianti di Rosarno colgono arance a un euro all’ora per le offerte sottocosto degli ipermercati e zelanti comuni del Belpaese distruggono alberi secolari per far posto all’ennesima speculazione. CONTINUA A LEGGERE su www.cinquecolonne.it